Seeguapik of Povungnetuk trims the stone between arm and face, 1956. Peter MurdochHBCA 1987/363-E-311/6C
L’arte Inuit (allora “eschimese”) si fece conoscere verso la fine degli anni cinquanta. Nel 1949 James Houston, un artista canadese, visitando un villaggio nel nord del Québec aveva intuito che gli Inuit avrebbero potuto guadagnare da questa attività vendendo i loro manufatti “laggiù, nel sud” ai turisti avidi di souvenirs. Nasce la AIRPORT ART, arte nata con l’aeroporto.
C’è infatti una storia curiosa, e forse poco conosciuta, all’origine della recente produzione di meravigliose sculture ed alle altre espressioni artistiche di queste popolazioni del Nord canadese. Comunque di radici millenarie, ebbe un declino durato secoli. Per il divertimento proprio e dei bambini gli adulti scolpivano nell’avorio o nella steatite dei modellini di pochi centimetri, detti pinguak, letteralmente “imitazione di una cosa”. C’erano poi gli amuleti abbozzati nell’osso di balena o altri oggetti di uso quotidiano in pietra o legno. Gli antropologi poterono affermare che gli Esquimesi/Inuit non avevano un concetto globale di arte e di estetica. L’idea del bello era espresso dalla parola takuminaktuk, “bello da vedere”, che però poteva riferirsi ad una slitta, un bambino o una aurora boreale.
Tutti cominciarono a scolpire, soprattutto nella molto diffusa steatite, chiamata quillisak, pietra per fabbricare le lampade. Ovviamente pochi erano i veri artisti, gli altri lo facevano per guadagnare. Avrebbero raffigurato di tutto: si racconta che alcuni eschimesi ammalati di tubercolosi i quali, una volta scesi in un sanatorio dell’Ontario, presero a scolpire figure di automobili e anche di canguri visti in uno zoo! Ma i bianchi dstrussero queste sculture considerandole ‘non autentiche’. Fu così che capirono che la loro arte, per essere genuina, primitiva, veramente ‘eschimese’, doveva rappresentare temi eschimesi: nacquero le stupende scene di vita vissuta, in uno stile di straordinaria immediatezza, rappresentazioni di caccia, di madri con bambini, di animali dell’Artico, scolpite nell’avorio, nell’osso, nella steatite.
L’arte Inuit (allora “eschimese”) si fece conoscere verso la fine degli anni cinquanta. Nel 1949 James Houston, un artista canadese, visitando un villaggio nel nord del Québec aveva intuito che gli Inuit avrebbero potuto guadagnare da questa attività vendendo i loro manufatti “laggiù, nel sud” ai turisti avidi di souvenirs. Nasce la AIRPORT ART, arte nata con l’aeroporto.
C’è infatti una storia curiosa, e forse poco conosciuta, all’origine della recente produzione di meravigliose sculture ed alle altre espressioni artistiche di queste popolazioni del Nord canadese. Comunque di radici millenarie, ebbe un declino durato secoli. Per il divertimento proprio e dei bambini gli adulti scolpivano nell’avorio o nella steatite dei modellini di pochi centimetri, detti pinguak, letteralmente “imitazione di una cosa”. C’erano poi gli amuleti abbozzati nell’osso di balena o altri oggetti di uso quotidiano in pietra o legno. Gli antropologi poterono affermare che gli Esquimesi/Inuit non avevano un concetto globale di arte e di estetica. L’idea del bello era espresso dalla parola takuminaktuk, “bello da vedere”, che però poteva riferirsi ad una slitta, un bambino o una aurora boreale.
Tutti cominciarono a scolpire, soprattutto nella molto diffusa steatite, chiamata quillisak, pietra per fabbricare le lampade. Ovviamente pochi erano i veri artisti, gli altri lo facevano per guadagnare. Avrebbero raffigurato di tutto: si racconta che alcuni eschimesi ammalati di tubercolosi i quali, una volta scesi in un sanatorio dell’Ontario, presero a scolpire figure di automobili e anche di canguri visti in uno zoo! Ma i bianchi dstrussero queste sculture considerandole ‘non autentiche’. Fu così che capirono che la loro arte, per essere genuina, primitiva, veramente ‘eschimese’, doveva rappresentare temi eschimesi: nacquero le stupende scene di vita vissuta, in uno stile di straordinaria immediatezza, rappresentazioni di caccia, di madri con bambini, di animali dell’Artico, scolpite nell’avorio, nell’osso, nella steatite.
Questa storia non deve indurci a pensare che l’arte Inuit sia un ‘falso’. Anzi. Si tratta di un tipico esempio di acculturazione, cioè, di come, a contatto con i bianchi, una civiltà indigena si sia trasformata, almeno in un settore della sua cultura, in senso positivo sviluppando il suo talento artistico.
Avviso ai turisti: non mancate di ammirare i capolavori di questa arte nei Musei e nelle numerose gallerie d’arte e ne rimarrete incantati. Preziose ed affascinanti, hanno un loro prezzo e l'autenticità è garantita da un certificato di provenienza. I piccoli souvenirs che trovate nei negozi per pochi dollari sono spesso delle repliche, fatti in serie e di un materiale sintetico (la steatite – come altre pietre utilizzate oggi - è molto pesante, la superficie risulta liscia, morbida e ‘calda’). Non vi dico di non comperarli; sappiatevi regolare.
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