Ogni anno, in settembre, immensi contingenti di oche bianche
che calano dalla tundra artica preannunciano l’autunno: viaggiano intruppate,
in fila indiana, disposte a cuneo, oppure disegnano linee più sinuose
imbrigliando tutto il cielo in una bizzarra rete. Puntano verso sud, ai
quartieri di svernamento, a piccoli ma ben definiti lembi di terra, sempre gli
stessi. Uno dei luoghi di maggiore affollamento è tra l’Oregon e la California,
il Klamath Basin, un centinaio di chilometri quadrati di terra acquitrinosa.
In volo ci sembrano tutte uguali; in realtà, l’aspetto è
simile in tre forme diverse di oca bianca: l’oca delle nevi vera propria
comprende 2 sottospecie, la minore (Anser caerulescens caerulescens),
lunga dalla punta del becco alla coda 75 centimetri circa e con un peso di
2,3-3,1 chili; e la maggiore (Anser caerulescens atlanticus), identica
sia esteriormente sia nella biologia e
nel comportamento , ma solo un po’ più grossa (pesa in media mezzo chili in
più).
A parte le dimensioni, le 2 sottospecie si distinguono per
la distribuzione: la “piccola”, decisamente più importante in termini numerici,
ha le sue stazioni di svernamento principali lungo la costa del Pacifico, nelle
valli della California e nel golfo del Messico; proviene dalla parte
occidentale delle baie di James e di Hudson, dall’isola di Baffin, dall’intera
fascia dei Northwest Territories, da tutta l’Alaska fino all’isola di Wrangel.
La “grande” si incontra nel Québec (dove a Cap Tourmente, alle foci del fiume
San Lorenzo, si trova uno dei più importanti ‘scali’ delle oche del continente http://www.amiscaptourmente.org )
e, più giù, sulla costa atlantica degli Stati Uniti; la riproduzione avviene
invece principalmente sulle isole di Bylot e di Ellesmere, e sulla costa
sud-orientale della Groenlandia. Piccoli contingenti si trovano anche in
Europa, in Scozia e in Irlanda.
Una terza oca bianca è quella di Ross (Anser rossi),
notevolmente più piccola e considerata rara, ma forse solo perché viaggia
insieme ai grandi stormi delle caerulescens, da cui è pressoché
indistinguibile: l’unica differenza, infatti, non è apprezzabile in volo in
quanto consiste nella mancanza della fascia nera lungo i lati del becco, il “grinning
patch” (chiazza del ghigno) che dipinge sull’espressione delle oche delle
nevi un curioso sorsetto.
Tra le 10.000-20.000 oche che si possono vedere in una volta
sola non avviene mai una collisione e probabilmente nessun altro grosso
volatile è capace di muoversi in tali matasse così abilmente. Esiste, nel
vocabolario delle oche (molto vasto visto che si tratta di animali sociali) un
segnale che significa “decollo immediato”: uno scuotere lateralmente la testa e
il becco che si propaga a macchia d’olio attraverso il gruppo un attimo prima
che tutti quanti si sollevino con una simultaneità stupefacente. I movimenti
nello spazio sono talmente ben calibrati che non si vede mai un individuo
scansarsi per fare posto a un altro, né alla partenza né all’aterraggio.
Pare inoltre che in mezzo a questa ‘nuvola’ di oche i gruppi
familiari, genitori e figli, riescano a viaggiare uniti. Per non perdere il
contatto emettono il caratteristico stridulo “keek” (altro al noto e più
colloquiale “zung-ung-ung” che ricorda il suono di un fagotto: gli individui si
riconoscono infatti dalla voce.
Quanto al caratteristico volo in formazione (gli individui
si dispongono secondo i lati di un’immaginaria ‘V’ con una guida al vertice) se
ne è discusso a lungo: scartate per motivi matematici diverse ipotesi di
reciproche facilitazioni aerodinamiche, si è propensi a considerarlo
semplicemente un comodo sistema per tenere d’occhi gli altri senza avere
ingombro tutto il campo visivo.
Il pericolo maggiore per le oche in migrazione? Quando non
sono uccise dai cacciatori, spesso le oche vengono ferite e diventano facile
preda dei rapaci. Altre muoiono di saturnismo, cioè avvelenate dai pallini di
piombo. Quasi un terzo dell’intera popolazione non farà ritorno alla tundra per
passarvi l’estate.
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